Gigli di mare

Da qualche anno ho la possibilità di passare una settimana di agosto sul lungomare di Sabaudia, nel territorio del parco naturale del Circeo. Precisamente sul litorale a ridosso del lago costiero di Caprolace e alla riserva naturale Pantani dell’Inferno, che, a dispetto del nome, rappresenta un’importante zona umida riconosciuta dalla convenzione di Ramsar.

Nei mesi di luglio ed agosto, sulle dune colonizzate dal Ginepro coccolone (Juniperus oxycedrus macrocarpa) e da altre specie altamente adattate alla dura vita sulla sabbia, fioriscono i meravigliosi Gigli di mare (Pancratium maritimum) , anche chiamati Narcisi di mare. Si tratta di piante che nulla hanno a che fare con il giglio, se non per il dolce e  persistente profumo che si diffonde per tutta la spiaggia al mattino presto e di notte, quando il vento è una leggera brezza gradevole.

I fiori sono candidi e molto grandi, possono arrivare a circa quindici centimetri di lunghezza e circa otto di diametro massimo, più circa cinquanta centimetri di gambo. Esibiscono una corolla doppia, quella esterna costituita da sei petali, quella interna che forma una specie di tromba dalla quale prendono forma stami e pistillo, quest’ultimo più lungo degli stami per evitare l’autoimpollinazione, impollinazione che avviene di notte a cura delle falene.

Il loro candore ha dato origine alla leggenda secondo la quale uno schizzo di latte di Era (la Giunone dei romani), succhiato con troppa foga da Ercole infante, volando in cielo abbia formato la via Lattea e ricadendo sul suolo abbia dato origine ai gigli di mare.

I Gigli di mare fanno parte delle piante che si affidano al mare per trasportare i propri semi che, quindi, sono in grado di galleggiare per lunghi periodi e distanze (disseminazione idrocora, la noce di cocco ad esempio usa la stessa strategia).

Sono diffusi in tutto il Mediterraneo, Portogallo, parte delle coste del Mar Nero, Sud Africa (dal quale sembra che abbiano origine) e California.

Non sono attaccati da parassiti, fatta eccezione per i voraci bruchi di Brithys crini (falena notturna le cui larve si cibano del giglio), nel 2016 hanno rappresentato una vera piaga per i gigli.

Negli anni ho provato molte volte a fotografarli. Per chi conosce il mio modo di fotografare i fiori, non faccio scatti allo scopo di assemblare un manuale o una guida per il riconoscimento.

Mi piace pensare di riuscire a catturare l’effimera essenza dei fiori, quasi a trasporre la loro delicatezza ed etereità sul supporto fotografico. Non sempre questo accade; è complicato fotografare uno dei soggetti più inflazionati senza cadere nel deja-vu o nella foto enciclopedico-documentale.

Cerco di rendere il fiore facendolo filtrare attraverso la mia sensibilità, visualizzandolo prima ancora di fotografarlo. Rendendolo, se possibile, ancora più etereo e delicato che nella realtà.

È una sorta di idealizzazione, un’istantanea di un’idea che trova compimento nella bellezza delle forme e dei colori. Possono essere dettagli estrapolati dal contesto, macchie di colore o il fiore intero: è poco importante il “cosa”, molto di più lo è il “come”. “Come” da intendere dal punto di vista visuale, non tecnico. “Come” lo vedo nel momento in cui scatto e “come” vorrei che gli altri lo vedessero, anche se il termine giusto dovrebbe essere, “percepissero”.

Quest’anno, complice una fioritura estremamente ed insolitamente abbondante, con centinaia e centinaia di gigli lungo i diversi chilometri del litorale, mi sono impegnato con maggiore attenzione e caparbietà.

Inizio con degli scatti mattutini, prima e durante il sorgere del sole ma, a parte l’uso vagamente creativo del cielo e delle nuvole rosate gli scatti non mi soddisfano.

Seguendo il consiglio di un grande fotografo nonché caro amico, Marco Antonini, che per me sta alla fotografia di fiori come Silvio Renesto sta alla fotografia di libellule e cioè un mentore assoluto, vado a fotografare al tramonto.

Purtroppo, dalla sera precedente, un vento di Maestrale teso e costante sta martellando in maniera incessante ed impietosa il litorale.

Risultato: appena arrivo in spiaggia mi coglie una sensazione di sconforto, dei profumati e immacolati gruppi di gigli rimangono i gambi ed i boccioli ancora non sbocciati oltre a brandelli di petali.

Con poco meno di un’ora di luce a disposizione comincio ad aggirarmi per le dune alla ricerca di sopravvissuti.

I resistenti cespugli di ginepro hanno protetto molti gigli che, anche se strapazzati dal vento, resistono stoicamente.

E’ una vera sfida, sia creativa che tecnica, a causa del tempo limitato, della difficile posizione dei fiori sopravvissuti e del Maestrale che continua imperterrito a spazzare il litorale, senza tregua.

Il vento è talmente forte e costante che un flusso fastidioso di sabbia sferza me e la macchina fotografica tanto da faticare a tenere gli occhi aperti in diverse occasioni.

I fiori sono in posizioni talmente improbabili e scomode che per un paio di scatti non ho altra soluzione che scavare una piccola buca dove alloggiare il fianco della macchina fotografica per abbassare il punto di vista ed avere il taglio verticale che sto cercando.

Sono armato di Tamron 90 macro e Sigma 150-600, entrambi sono in grado di produrre uno sfocato veramente gradevole; sono partito con l’intenzione di scambiarli più volte in base alle occasioni, ma la sabbia che tenta di infilarsi ovunque mi costringe a soli tre cambi, effettuati in maniera che va ben oltre la normale cautela.

Il cavalletto che ho appresso risulta essere solamente un fardello che lascio a prendere il Maestrale su una duna. Gli spazi sono talmente stretti e scomodi che anche la flessibilità e modularità del mio 055x ProB sarebbe un impedimento. Decido di non usarlo.

Le migliori foto alla fine sono scattate con il Tamron, forse ciò non dipende solo dalle particolari condizioni atmosferiche ma, probabilmente o principalmente, dal fatto che il Tamron è una lente che possiedo da dieci anni, che conosco come le mie tasche e dalla quale so precisamente cosa aspettarmi, cosa poterle chiederle e cosa no.

La raffica della D300s risulta necessaria così come l’AF che riesce a stare dietro ai fiori che vengono sbatacchiati senza sosta. Mi meraviglio di come possano non disintegrarsi davanti ai miei occhi…

Alla fine riesco a tirare fuori diversi scatti che avevo in mente e nel cuore, uno in particolare eccede le mie aspettative nel momento esatto in cui compare sul display della mia fida D300s.

C’è tutto quello che avrei voluto ci fosse, uno sfondo che fa risaltare le curve sinuose dei petali e della corolla, il controluce che delinea in maniera netta ma allo stesso tempo delicata la silouette, le strutture riproduttive che sembrano dare origine al Sole perfettamente posato sulla corolla.

Per questa foto la raffica è stata decisiva, potete vedere una velocissima preview di parte della raffica, io sono letteralmente piantato nella sabbia, praticamente immobile, i movimenti sono dovuti unicamente al vento. La D300s è capace di 7 fotogrammi al secondo, gli scatti sono tutti intorno a 1/3200s, facile capire quale fosse la potenza del vento. 

image.png.82ddaa87b2d56cf35b9ae8132cd1c02c.png.82ef9982941f81ac858011f6d104ed8b.png (764×640)

Ne è valsa la pena?

Ovviamente si, lo rifarei (e lo rifarò) altre mille volte.

Non è forse questa soddisfazione che ci spinge a fotografare?

P.S.: State pensando che forse potrei aver esagerato con la storia del Maestrale? Giudicate voi stessi…

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